GLI ELEATI: LA SCOPERTA DELL’ESSERE
Parmenide
Nasce ad Elea (l’attuale Velia, in Campania, a sud di Paestum) intorno al 540 a.C. Ha dato ottime leggi alla sua città ed è stato uomo onorato dai suoi concittadini.
È stato il fondatore della cosiddetta “Scuola eleatica”, di cui Zenone e Melisso sono stati i più noti allievi. È morto verso la metà del quinto secolo avanti Cristo. Si deve a Parmenide l’inizio di una nuova fase della filosofia, non più interessata allo studio della natura,del cosmo e della sua origine (come per la scuola di Mileto), ma interessata invece al problema di quale sia la realtà vera e profonda.
Con Parmenide, al posto della cosmologia o filosofia della natura, sorge l’ontologia, che significa filosofia della realtà in generale, ossia filosofia dell’essere, poiché la realtà in generale può anche essere chiamata “l’essere”: tutto ciò che è. Nell’uomo, dice Parmenide, vi sono due forme di conoscenza: la conoscenza sensibile, attraverso i sensi, e la conoscenza razionale, attraverso la ragione, il pensiero. Ma solo il pensiero, il ragionamento, sono in grado di conoscere la realtà vera e profonda, mentre i sensi si fermano alla superficie, all’apparenza delle cose. Dunque, quella sensibile non è vera conoscenza ma solo semplice opinione. Quello di Parmenide è il problema della realtà autentica, dell’essere autentico della realtà, ma anche, contemporaneamente, il problema della ragione e del linguaggio che l’uomo adopera per parlare delle cose e della realtà in generale.
Per Parmenide vi è identità fra realtà, ragione e linguaggio. Infatti, si può pensare e parlare solo di ciò che è, ossia della realtà vera, mentre ciò che non è non può essere né pensato né se ne può parlare. Realtà, pensiero e parola sono i tre aspetti fondamentali dell’essere e tutti obbediscono ad una medesima legge, che è contemporaneamente legge logica e legge della realtà:
– l’essere coincide con la logica (il pensiero) e con il linguaggio che descrive l’essere, cioè la realtà;
– la logica e il linguaggio coincidono a loro volta con la realtà;
– l’ordine del mondo coincide con l’ordine del pensiero che lo pensa e del linguaggio che lo descrive.
Parmenide parte dall’osservazione che “è vero ciò che è ed è falso ciò che non è” e la esprime dicendo che “l’essere è mentre il non essere non è”. Collega cioè l’essere e il non essere con la verità e la falsità. Espone la sua dottrina attraverso un poema ( “Sulla Natura” ), di cui ci restano 154 versi. Protagonista del poema è una dea, che simboleggia la verità, la quale rivela che ci sono due modi, duevie lungo le quali l’uomo procede nella conoscenza. La prima via è quella della verità, certa e sicura, mentre la seconda è quella dell’opinione(in greco “doxa”), fallace e sbagliata: è la via dell’apparenza. Solo la prima via conduce alla verità, quella che parte e si basa sul principio che “l’essere è e non può non essere, mentre il non essere non è e non può in alcun modo essere“. L’essere è qui inteso da Parmenide come l’essere puro, assoluto, l’essere in generale, per cui il non essere che gli si contrappone è il nulla assoluto, l’assolutamente niente, ed il niente, ossia il non essere, non solo non esiste, ma neppure può essere pensato né descritto. L’essere è la proprietà generale, la proprietà prima e comune di tutte le cose. Infatti qualsiasi cosa, prima di essere qualcosa di specifico (per esempio un tavolo, un tramonto, una persona, un’idea), deve innanzitutto essere, cioè esistere, esserci. Ogni cosa è quindi dapprima un essere, cioè un ente (ente, dal latino “ens”, significa che c’è, che esiste).
E poiché il contrario dell’ essere, ossia il non essere, è il nulla, il niente, allora tutte le cose che sono, che esistono, non possono prima o poi diventare anche non essere, cioè diventare niente: o ci sono oppure non ci sono; non possono esserci e, prima o dopo, anche non esserci.
Questa di Parmenide è la prima grandiosa formulazione del principio di non contraddizione, il quale afferma l’impossibilità che i contrari sussistano nel medesimo tempo: o c’è l’essere o c’è il non essere. L’essere non può pervenire dal non essere o diventare non essere. Eppure la realtà sensibile ci mostra continuamente il divenire delle cose, cioè il continuo trasformarsi e mutare di tutte le cose, che prima sono una certa cosa, cioè un certo modo di essere, e poi diventano un’altra cosa, diventano cioè un “non essere” più la cose di prima. Ma per Parmenide la vera realtà non è quella del divenire delle cose perché in contrasto col principio di non contraddizione. La realtà sensibile, conclude Parmenide, non è né autentica né vera ma è realtà illusoria, solo apparenza, solo opinione. La verità non è la realtà sensibile, che si coglie con i sensi, bensì quella che si coglie soltanto con la ragione, col ragionamento, e che non riguarda le cose sensibili ma i principi, i concetti. In sostanza, ciò che vale per Parmenide non è l’esperienza sensibile, perché i sensi rimangono alla superficie delle cose e/o possono ingannare, ma è la logica, basata su principi, su concetti e regole, che rimangono sempre fissi e immutabili, per cui l’essere, il loro essere, rimane tale costantemente e non può divenire anche non essere.
Gli attributi dell’essere
Avendolo concepito in termini assoluti (come essere assoluto), cioè in maniera logica e non sensibile, fisica, Parmenide definisce di conseguenza gli attributi, ossia le proprietà, le caratteristiche, dell’essere.
Innanzitutto l’essere è unico e non possono esistere esseri molteplici, perché se l’essere è uno e l’altro o gli altri non sono il primo, allora essi sono “non essere” rispetto al primo, cioè sono niente, nulla. Pertanto non vi è una pluralità di esseri e neppure l’essere diviene, cioè cambia, si trasforma, perché se si trasforma diventa un “non essere” più quello di prima, mentre il non essere non esiste, è niente.
In secondo luogo, l’essere è eterno immutabile, immobile. L’essere è eterno, ossia ingenerato ed incorruttibile, perché se fosse stato generato, se avesse cioè avuto un inizio, sarebbe dovuto derivare da un non essere, il che è assurdo poiché il non essere non è, è niente; oppure sarebbe dovuto derivare da un altro essere, il che è impossibile essendo l’essere unico. Neppure è corruttibile, ossia destinato a perire, perché non può andare nel non essere.
In terzo luogo, l’essere è compiuto perché non manca di nulla e quindi è perfetto.
Infine, se l’essere è perfetto e compiuto allora è limitato e finito, simile a una sfera perfetta. Nell’ antichità infatti, come già premesso, l’idea di perfetto coincideva ed era collegata ad entità complete e finite, mentre l’idea di infinito coincideva ed era collegata all’idea di indefinito, cioè di indeterminato e di incompiuto, e perciò imperfetto.Qui va detto, peraltro, che Parmenide usa il verbo essere esclusivamente nel senso sostantivato di “esistere”. Ignora, cosa tipica a qull’epoca, il significato e la funzione anche copulativa del verbo essere, che non significa soltanto esistere, ciò che esiste, ma che serve altresì ad unire un sostantivo ad un predicato; in questo senso allora vi sono numerosi modi di essere (è bello; è brutto; è giusto; è sbagliato; ecc.). Parmenide conserva invece l’abitudine di sostantivare il verbo essere, che diventa l’essere, cioè la reificazione (trasformare in cosa) di un concetto, che avviene quando si scambia e si trasforma un concetto astratto in oggetto concreto, dimenticando che, come dice il filosofo Fuerbach, “gli oggetti sono dati ma i concetti sono posti”. La copula si applica ad un sostantivo e non ha senso applicarla ad un verbo, nel caso al verbo essere, quantunque sostantivizzato. Dire che l’ente è ha senso, ma dire che l’essere è non ha alcun senso, è vuota tautologia (ripetizione del medesimo significato).
In effetti, interrogandosi sul non essere, cioè ponendo la domanda “che cos’è il nulla?”, Parmenide si imbatte nel “paradosso del non essere”. Da un lato infatti il non essere è niente per sua stessa definizione; dall’altro esso però è anche qualcosa: è appunto il non essere. È questo un paradosso che, secondo la moderna filosofia analitica del linguaggio, smaschera l’illusione metafisica dell’essere e del non essere. Ossia il paradosso prova che, benché siano molti gli esseri e i non essere relativi (cioè il non essere una cosa perché si è una cosa diversa) non c’è invece alcun Essere o Non Essere assoluti. La terza via, quella delle apparenze plausibili o dell’opinione possibile . Nella seconda parte del suo poema, di cui però è rimasto molto poco, Parmenide parla anche di una terza via della conoscenza, quella della apparenza plausibile o della opinione possibile, riconoscendo la validità di un certo tipo di discorso con il quale cercare di spiegare anche la realtà sensibile, ossia i fenomeni e l’apparenza delle cose, purché non in contrasto col fondamentale principio di non contraddizione, ammettendo insieme sia l’essere che il non essere. Questa terza via consisterebbe nello scartare le opinioni meno convincenti per mantenere invece quelle più plausibili. È però evidente che si tratta di un tentativo destinato ad urtare contro insuperabili contraddizioni, dal momento che è difficile ammettere la contemporanea sussistenza dell’essere e del non essere. Le teorie di Parmenide, per il loro carattere innovativo e poiché assolutamente contrarie al senso comune, provocarono enorme stupore e suscitarono vivaci polemiche, specialmente perché negavano la molteplicità degli esseri, degli enti, nonché il loro divenire, cose ritenute invece del tutto evidenti in base all’esperienza. I discepoli di Parmenide, in particolare Zenone e Melisso, si proposero allora, per rafforzare la teoria del loro maestro, di dimostrare con esempi concreti, ricorrendo a paradossi (dimostrazioni lontane dal senso comune e dalla generale esperienza), che la molteplicità e il divenire degli enti non sono reali ma solo apparenti, mentre reale è solo l’essere unico e immutabile, come sostenuto, appunto, da Parmenide.